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Nei giorni, ahimè lontani, in cui frequentavo ancora l’Università, uno dei temi di cui più si parlava nei seminari era quello del fog computing: senza usare complesse definizioni, questo approccio prevedeva di decentralizzare la capacità computazionale dai server agli oggetti del nostro quotidiano, fornendo loro sia degli opportuni microprocessori, che fornissero loro un minimo di intelligenza, sia delle funzionalità di networking, in modo che potessero scambiare dati tra loro e con eventuali sistemi di controllo e analisi centralizzati.
Di fatto, quello che sta accadendo con la nostra IoT, Internet of Things, che comprende ad esempio tutte le applicazioni della Domotica: queste analisi, però, avevano tre grosse differenze, rispetto a quanto sta realmente accadendo. Per prima cosa, ipotizzavano un ambito di estensione del fog computing ristretto all’ambito delle macchine industriali: nessuno avrebbe scommesso una lira, all’epoca c’erano ancora quelle, sulle smart city, sul smart metering, sulle automobili “intelligenti”, sul public cloud, sugli smartphone e sui tablet, tutte tecnologie che hanno portato al boom della domanda di microprocessori.

In più, si ipotizzava come i processori impiegati nel fog computing, fossero abbastanza semplici, analoghi agli 8086 dell’Intel: se pensiamo ai chip utilizzati nei nostri smartphone, possiamo capire quanto sia stata sbagliata questa previsione. Infine, si metteva la mano sul fuoco che l’industria della microelettronica riuscisse a soddisfare in pieno l’incremento, relativo, delle richieste: industria che, negli anni Ottanta e Novanta, era così ripartita, con il 40% della produzione negli USA, il 40% in Europa e il 20% in Asia, distribuita tra Taiwan, Corea del Sud e Giappone.
Purtroppo, tutte queste analisi non tenevano conto degli effetti della famigerata Legge di Moore, dal nome di Gordon Moore, co-fondatore della multinazionale Intel. Secondo Moore, la complessità e le relative performance di un microcircuito, misurate tramite il numero di transistore per chip, raddoppiano ogni 18 mesi e quadruplicano ogni tre anni, ossia crescono esponenzialmente, mentre le prestazioni delle memorie lo fanno linearmente. La maggior disponibilità di capacità computazionale, che ha permesso di implementare concetti, come quelli delle reti neurali, che erano stati sviscerati dagli anni Sessanta, ma che non erano mai stati realizzati nel concreto, ha reso più conveniente, anche quando non serviva, associare agli oggetti di uso quotidiano chip ad alte prestazioni, secondo il vecchio principio
“Nella vita non si può mai sapere”.
Purtroppo, un secondo enunciato di Moore mette in guardia sugli effetti negativi della crescita continua delle prestazioni dei processori
"Il costo delle apparecchiature per fabbricare semiconduttori raddoppia ogni quattro anni" Dunque, le aziende del settore si sono trovate nel tempo ad affrontare un duplice problema economico: l'aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo da una parte e, dall'altra, l'incremento dei costi di produzione.

Problema che è stato affrontato in maniera differente negli USA, in Asia e in Europa. In America, si è deciso di mantenere le capacità progettuali e di ricerca e di dare in outsourcing la produzione industriale dei processori alle fabbriche asiatiche.
In Asia, sì è pensato di ridurre i costi di produzione, beneficiando delle economie di scala e creando dei grandi conglomerati industriali, come ad esempio la Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company).
In Europa, con l’eccezione dell’Italia, pur mantenendo notevoli investimenti nella ricerca, si ha avuta la brillantissima idea di chiudere le fabbriche. Ricordiamoci che a novembre del 2005 le società europee di semiconduttori si recarono a Bruxelles per chiedere aiuti lamentando di non riuscire a competere ad armi pari, in particolare con i rivali asiatici che venivano sussidiati dai loro Paesi. L’azienda leader in Italia St Microeletronics uscì dal colloquio avuto con i tecnici comunitari senza ostentare particolari entusiasmi:
“La Commissione Europea sulla questione degli aiuti non ha preso alcun impegno”.
Cosa che in soldoni, significava
“Ai burocrati europei, del settore, non frega niente”.
Risultato, ad oggi l’80% della produzione industriale dei chip è in Asia (il 67% a Taiwan), il 10% negli USA e il 10% in Europa, o per essere più precisi, in Italia: produzione industriale che tra l’altro, non riesce a colmare il gap fisiologico tra offerta, poca, e domanda, tanta e sempre in crescita.
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