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A questo dato di fatto, si aggiungono due eventi contingenti, che lo hanno ulteriormente peggiorato: il primo la guerra commerciale di Trump e di Biden, che si sta dimostrando una sorta di Trump 2.0, a Pechino. Guerra commerciale che si è concentrata proprio sulla microelettronica: benché ZTE e Huawei riescano a produrre hardware con un ottimo rapporto qualità prezzo (ma mai quanto la Supermicro) hanno ancora il problema di essere dipendenti, dalla componentistica made in USA, oltre a pagare lo scotto del ritardo nell’adozione del paradigma Software Defined.
Di conseguenza, ad ogni starnuto a Washington, le loro linee di produzione si bloccano, provocando notevoli malumori ai loro principali clienti, le Telco europee, che hanno cominciato a non dare più loro commesse. Per evitare analoghi problemi in futuro, le aziende elettroniche cinesi hanno cominciato a fare incetta di processori, diminuendone la disponibilità.
Il secondo, un’inaspettate e improbabile serie di piaghe bibliche, dalla pandemia ai terremoti e agli uragani, che hanno flagellato le zone di produzione dei processori. Risultato, un’improvvisa carenza di processori che ha improvvisamente colpito un settore, che sino a una decina di anni fa, se ne sarebbe fregato alquanto, ossia quello automobilistico: Volkswagen ha deciso di tagliare la produzione di auto dell’impianto di Wolfsburg, il principale del Gruppo dove impiega 60mila persone; Stellantis ha fermato nuovamente due impianti in Francia dopo aver preso decisioni simili nei suoi stabilimenti in Illinois, in Ontario, a Detroit e in Messico.
Toyota ha annunciato un taglio netto del 40% della sua produzione globale. Nei giorni scorsi anche la svedese Volvo aveva bloccato le sue linee per una settimana, e la stessa cosa hanno fatto a più riprese un po’ tutti, Mercedes, Bmw, Honda, General Motors, Renault che per quest’anno ha tagliato la produzione di ben 200mila veicoli.
Qualche mese fa la società di consulenza AlixPartners calcolò che l’industria globale dell’automobile vedrà quest’anno minori entrate per 60 miliardi di dollari. La previsione era fin troppo rosea, e a luglio si è vista costretta a raddoppiare la stima, portandola a 110 miliardi di perdite. È ormai opinione diffusa che la crisi dei chip durerà almeno fino al 2023.
[Photo by Lenny Kuhne on Unsplash]

L’impatto di questa crisi ha costretto USA, UE e Cina a scuotersi dal loro torpore, scatenando la cosiddetta Chip War: a febbraio Biden, sempre in linea con l’America fist di Trump, che aveva già preso decisioni analoghe, ha firmato un ordine esecutivo che prevede una revisione della catena di approvvigionamento dei semiconduttori per analizzare e prevedere i fattori di rischio. Lo ha fatto inserendo 50 miliardi di dollari nel pacchetto di stimoli da 2.000 miliardi destinandoli alla ricerca. Inoltre, ha concesso una serie di facilitazioni fiscali alle società che riporteranno le linee di produzione dei processori delocalizzate in Asia.
In più, Biden ha preso di petto la questione terre rare, un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, utilizzati in settori diversi, dall'elettronica più commerciale, alla più alta tecnologia, alle attrezzature militari. Oltre il 90% dei veicoli ibridi ed elettrici utilizza magneti a base di terre rare nei loro motori, mentre ogni jet da combattimento F-35 richiede 420 libbre di materiale di terre rare. Ma quali sono i nomi di questi minerali? Scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tallio, itterbio e lutezio.

Si tratta di nomi praticamente sconosciuti, anche se ormai questi minerali sono ricercatissimi e valgono molto più dell'oro. Il loro nome, infatti, più che alla loro scarsa disponibilità, è legato all’enorme difficoltà di lavorazione e estrazione del minerale puro; le terre rare devono essere disciolte a più stadi in acidi, filtrate, ripulite, producendo residui tossici e radioattivi. Ora, questo processo, dannoso per l’ambiente e per la salute pubblica, negli anni Ottanta è stato progressivamente vietato nei paesi occidentali; in Cina, in cui oggettivamente non si è ancora sviluppata una sensibilità analoga, si è preferito barattare la salvaguardia dell’ambiente e la salute con il guadagno, trasformando Pechino in un monopolista, almeno da quando si è smesso di estrarre terre rare dalla miniera di Mountain Pass nel deserto del Mojave in California.
Molycorp, così si chiamava l'azienda mineraria Usa, l'unico grande produttore di terre rare negli Stati Uniti, è crollato sotto il peso di un debito di 1,7 miliardi di dollari.
Ora, più che per paura di un embargo, Pechino ci provò nella seconda metà del 2010, riducendo del 70% l’esportazione delle terre rare mandando alle stelle i prezzi, con picchi superiori all’850%, tentativo che si risolse in un epocale fallimento, visto che Europa e America si riconvertirono con rapidità impressionante a soluzioni alternative, costringendo la Cina a tornare sui suoi passi con la coda tra le gambe, ma per l’oggettiva difficoltà delle miniere del Celeste Impero a soddisfare la domanda di questi materiali da parte della micro elettronica, il governo Usa ha deciso di sostenere la resurrezione di Mountain Pass.
Il Pentagono ha accettato di finanziare MP Materials - una società sostenuta da private equity, che ha acquistato la miniera per 20,5 milioni di dollari nel 2017 e ha riavviato gli scavi - per progettare il primo impianto di lavorazione di terre rare pesanti negli Stati Uniti nel sito. Sta anche sostenendo un progetto simile in Texas proposto dalla Lynas.

L'Australia, che detiene un sesto dei depositi mondiali di terre rare, ha collaborato con il governo degli Stati Uniti per reperire nuovi depositi e supportare gli operatori del mercato. E la Russia ha svelato un piano di terre rare da 1,5 miliardi di dollari per tentare gli investitori con agevolazioni fiscali e prestiti a basso costo. Inoltre, si stanno rendendo operative nuove miniere in Giappone e persino in Corea del Nord. In Italia, invece, si stanno studiando delle alternative alle terre rare basate sulle “magnetic core-shell nanoparticles”, partendo da complessi basati su un mix tra ferro e cobalto, molto più efficienti, cercando di renderne competitivi i costi.
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